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venerdì, 19 Aprile, 2024
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Sara Pedri vessata e umiliata, così si è spenta in tre mesi. I suoi messaggi: “Ho paura, non avrò vita lunga qua”

Nella vita di Sara Pedri c’è un prima e un dopo. Il bivio che cambia la sua esistenza è racchiuso in una data – 16 novembre 2020 – e in un luogo, l’ospedale Santa Chiara di Trento. Un anno fa la ginecologa forlivese di 31 anni si lascia alle spalle la Calabria, dove si è specializzata, e arriva in Trentino. Doveva essere il salto di carriera, il primo passo da “strutturata”. È l’inizio della fine. Il 3 marzo si dimette dall’azienda sanitaria, il giorno dopo la sua macchina viene trovata vicino a un ponte in Val di Non che dà su un torrente. Un luogo tristemente noto per i suicidi. Da allora il corpo non è stato trovato. La famiglia di Sara, difesa dall’avvocato Nicodemo Gentile, sostiene che la dottoressa sia stata vittima di vessazioni e maltrattamenti che l’hanno portata al burnout.

Ma succede di più. Decine di operatori sanitari – medici, ostetriche, infermieri – chiedono di essere ascoltati per raccontare cosa succedeva nel reparto di ginecologia e ostetricia diretto da anni dal primario Saverio Tateo e dalla sua vice Liliana Mereu. Crolla un muro di silenzio che questa estate porta la procura di Trento, con la pm Licia Scagliarini, a indagare i due dirigenti per maltrattamenti nei confronti di quattordici professionisti, fra cui la ginecologa di Forlì. L’inchiesta è aperta e ora è attesa una svolta. Tateo, nel frattempo, è stato licenziato, Mereu trasferita a mille chilometri di distanza.

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Un dramma personale ha così illuminato le ombre di un intero reparto ma secondo Emanuela Pedri, la sorella di Sara, non basta: “Alla sua scelta bisogna dare un valore condiviso o tutto è vanificato. Bisogna parlare, sensibilizzare”. Lo scorso 12 dicembre diversi monumenti e palazzi delle istituzioni si sono illuminati di verde in occasione della giornata nazionale per le persone scomparse. Anche la casa di Sara, per una sera, aveva lo stesso colore.

La sorella di Sara: “Mia sorella poteva essere salvata”
“Sara non è scomparsa, sappiamo che c’è stato un gesto estremo. Lei è in fondo al lago. Ma poteva essere salvata, è la certezza più grande che ho, il motivo per cui faccio questa battaglia. Se mi fossi fatta calpestare dai sensi di colpa non sarei arrivata fin qui. Il dolore è un lusso. A quella scelta, tutta sua, ora bisogna dare un valore, condiviso da una massa. Oppure tutto è vanificato”. Emauela Pedri, 45 anni, la sorella di Sara, da mesi è il volto e la voce di una famiglia che cerca la verità.
Chi era Sara?
“Una ragazza indipendente, determinata, appassionata di un lavoro per il quale aveva dato tutta sé stessa”.
Si era specializzata in Calabria. Poi, nel 2020, la chiamata in Trentino.
“Ho visto una persona sicura di sé, bella come il sole, partire con entusiasmo, felicità, orgoglio e spegnersi in un mese e mezzo”.
Partiamo dall’inizio. Il 16 novembre Sara comincia all’ospedale Santa Chiara di Trento.
“Già all’inizio lei ha la sensazione che qualcosa non va. I colleghi, a fin di bene, le dicono: qui bisogna solo correre, non ci interessano i tuoi problemi personali, se vuoi sopravvivere devi lavorare. Non conosceva ancora la tossicità di quell’ambiente”.
Quell’ambiente era tossico?
“La situazione precipita perché lei capisce che quelle frasi erano vere. È sottoposta a ritmi estenuanti, viene vessata, aggredita verbalmente, percossa con uno strumento in sala operatoria, lasciata in una stanza da sola. A gennaio comincia a non mandare più foto, video, audio. In genere lo faceva sempre”.
Il 19 febbraio, per un breve periodo, torna a casa.
“L’ho costretta a prendere un certificato di malattia. Non si faceva vedere perché era imbarazzata di com’era ridotta. Si era ammalata, era in burnout, una sindrome tragica”.
Come la trovò in quei giorni?
“Aveva perso 7-8 chili. Se ne stava accovacciata in un angolo. Voleva pranzare in disparte. Si mangiava le unghie fino alla pelle. Si estraniava: una volta sono entrata nella sua stanza per alcuni minuti e lei non se n’era nemmeno accorta. Non dormiva più”.
Cosa vi diceva?
“Ricordo che disse: ‘Quando si è felici il tempo scorre veloce’. Ma anche parole come: ‘Voglio scomparire’. Quando vedeva la nostra reazione aggiungeva: ‘Ma no, cosa pensate, mica ho il coraggio di togliermi la vita, mi fa paura anche l’otturazione dei denti…'”.
Scriveva?
“Sì. Stava preparando una lettera di dimissioni. Ma non formale: voleva spiegare ai suoi superiori il perché del proprio malessere. Degli scritti sono stati trovati nel suo appartamento. Lei diceva: ‘Proprio adesso che si diventa grandi, io non riesco a proseguire’. Aveva associato l’essere diventata una strutturata con l’essere grande. Come dire: proprio adesso che devo dimostrare chi sono, non riesco. La malattia ti pone davanti a uno specchio che non vuoi vedere, non accetti la tua immagine, quel malessere lo vuoi togliere. Non possiamo capire fino in fondo di cosa Sara si è voluta liberare. Lei è morta delle paure che le hanno fatto venire: se non eri in grado di lavorare in quel reparto, non potevi farlo da nessun’altra parte. Se non ce la facevi – e molti non ce la facevano – ti facevano credere di non avere capacità. Ti demansionavano”.
Mentre Sara è a casa, a Forlì, scopre di essere stata trasferita dal Santa Chiara al vicino ospedale di Cles.
“Sara doveva rientrare al lavoro il primo marzo. Mentre è in malattia, scopre che non è nei turni della settimana. Come? Con una telefonata alla segreteria: chiedeva a che ora doveva essere in ospedale lunedì. Già era malata, pensava di non valere niente, poi scopre questa cosa. Cosa poteva pensare? ‘Mi hanno licenziata, non mi vogliono più’. Chiede spiegazioni, la chiama il primario (Tateo, ndr). Avevano deciso di mandarla a Cles. Senza dirlo a lei. È lì che noi non abbiamo capito: trasferirla è stato un lavarsene le mani”.
A Cles si trova male?
“Viene parcheggiata in un consultorio a dare farmaci. Attenzione, non sminuisco quel ruolo! Ma quando una persona subisce quello che ha subito Sara, quando le riempi la testa di cavolate sul tuo reparto dicendo che se non puoi lavorare lì non puoi farlo da nessun’altra parte, pensi che tutto il resto è nulla, che non vali niente”.
Così Sara si licenzia.
“Dopo tre giorni”.
Il quattro marzo viene trovata solo la sua macchina.
“Io non potevo sapere tutte queste cose finché non ho fatto domande precise agli operatori che lavoravano al Santa Chiara. Sono partita dai loro disagi personali per arrivare a mia sorella. Loro si sono aperti con me e hanno buttato giù un muro di omertà e silenzio. Perché Sara è stata vittima dell’omertà e del silenzio. Si è dimessa perché si sentiva sbagliata, inadeguata, incapace. Non ha cercato un capro espiatorio, un colpevole esterno. Non ha puntato il dito o scaricato la sua rabbia”.
Oggi i vertici di quel reparto sono indagati.
“Giustizia deve essere fatta. Chi riveste un ruolo dirigenziale deve essere punito se non è capace. Noi abbiamo fatto solo una domanda: cosa è successo a Sara? Da questa domanda, banale, è nato tutto questo. È bastato raccogliere le prime cinque testimonianze spontanee. Mi auguro che presto ci sia un processo, siamo in attesa di saperlo”.
Sara poteva essere salvata?
“Assolutamente sì. È la certezza più grande che ho, il senso di questa battaglia. C’è tanta rabbia legata a questo”.
Lei ha dei sensi di colpa?
“Quando Sara è venuta qua non l’ho riconosciuta. Era un’altra persona. Il burnout è un fuoco che brucia tutto in poco tempo. L’unico modo per farla uscire da quello stato era portarla in una clinica ma la nostra paura era che ci odiasse per tutta la vita e che succedesse qualcosa di peggio. Come poi è avvenuto. È impossibile non avere sensi di colpa. Ce li hanno i colleghi che l’hanno conosciuta da poco. I miei? Non averla bloccata di più, non avere avuto il tempo. Tornassi indietro la legherei, la fermerei fisicamente. Questo è il consiglio che darei oggi, perché questa battaglia è anche per gli altri, vorrei che avessero gli strumenti per intervenire e agire subito. Fare denuncia è importantissimo. Mi piacerebbe che il caso di Sara servisse a dare dignità a lei in primis, se la merita tutta. E a far sì che sua luce diventi luce per altri”.
Da quel 4 marzo, il corpo non è stato trovato.
“È lì, in fondo al lago. Mi auguro che a febbraio-marzo la ricerchino. Mi fido del capitano dei carabinieri. Le persone che cercano gli scomparsi diventano parenti. Sono fiduciosa”.

(fonte: repubblica.it)

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