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sabato, 20 Aprile, 2024
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Roccella Jonica, stasera la prima nazionale di “Lea Garofalo” dell’Opera dei Pupi e delle Pupe Antimafia

Claudio Cavaliere intervista la cantastorie Francesca Prestia.

Chissà perché mentre la ascolto mi viene in mente la poesia di Sepùlveda, le donne della mia generazione:
Scrivono messaggi che incendiano la memoria./Ricordano aromi proscritti e poi li cantano./Ogni giorno inventano parole/e con quelle ci spingono,/riparano e incoraggiano, danno fiducia/e addolciscono il filo dell’ira.
Non c’è solitudine dove guardano loro/né oblio finché cantano.

Forse è quella chiusa a svolazzarmi in testa: né oblio finché cantano …
Del resto è proprio questo il ruolo fondamentale di un cantastorie, una cantastorie in questo caso: arrestare l’oblio. Quella cosa che sta diventando la vera malattia pandemica della mente e allo stesso tempo, di diritto o di sbieco, di sopra o di sotto, ossessione per quanti sono abituati a guardare le cose del mondo. Quella cosa che sta in mezzo tra la scrittrice Annie Ernaux e il suo Gli anni, e lo storico Tony Judt e il suo L’età dell’oblio.
Lei è Francesca Prestìa, la cantastorie calabrese che ha appena terminato, in attesa della prima nazionale che si terrà a Roccella Jonica il 1° agosto, lo “Spettacolo dell’Opera dei Pupi e delle Pupe Antimafia” dedicato a Lea Garofalo, vittima della ‘ndrangheta.
Insieme al puparo siciliano Angelo Sicilia hanno cucito questa produzione unendo, in maniera originalissima, il meglio della tradizione dei pupi siciliani con quella antica e particolare arte che racconta cantando di cui la Prestia é la principale interprete femminile calabrese.
Davanti ad un bicchiere di birra parliamo di questa sua nuova produzione.
Come nasce questo lavoro e questo incontro?
“Con Angelo ci siamo conosciuti alla rassegna Trame di Lamezia nel 2016. Eravamo entrambi ospiti del Festival.
Il suo spettacolo dei pupi che usciva dallo schema classico dei paladini per dare voce a personaggi contemporanei che hanno lottato contro la mafia mi era piaciuto per la sua originalità e perché riusciva a raggiungere il pubblico più vario anche dal punto di vista dell’età.
Io avevo già composto la “Ballata di Lea” ed altre canzoni, “Tantu nui simu ‘e cchiù!” in memoria di Rita Atria, Maria Concetta Cacciola, Ilaria Alpi, Rossella Casini, Francesca Morvillo e la ninna nanna “Lu bene re la mamma”, dedicata a Giuseppina Pesce.
Siamo due meridionali per cui nessuno deve spiegare all’altro cos’è la mafia, cosa produce, cosa distrugge. Forse anche per questo l’intesa è stata immediata, naturale direi.
L’idea di unire le due forme artistiche e la scelta della storia di Lea Garofalo come trama della rappresentazione è stato anch’essa abbastanza semplice per il suo fortissimo valore di testimonianza.
Il copione è stato scritto durante il lockdown come le mie musiche che sorreggono la rappresentazione.”
Eppure sull’argomento noto, soprattutto da noi in Calabria, una stanchezza da abuso, un effetto di desensibilizzazione che si produce quando si vede, si dice o si pensa la stessa cosa troppe volte. Parole e frasi da predicatori retorici, una antimafia politica esibita, spesso priva di sostanza che stordisce chi ascolta e lo rende immune dal male che si vorrebbe descrivere.
“Ci sono almeno due livelli. La mafia macina storie, vite, destini con l’aggravante che chi ne è vittima viene considerato appestato. Se ne parla malvolentieri, le vittime sono fastidiose perché la loro stessa presenza segnala un dramma, rappresentano la nostra cattiva coscienza, una sorta di “viltà collettiva”, di collettiva rinuncia alla civiltà. Penso al dramma delle madri delle vittime di lupara bianca che in Calabria sono tante. La loro voce ogni tanto si sente, ma è flebile e si spegne immediatamente. Ma io che sono madre credo di capire quel dramma, che meriterebbe ben altra voce, ben altra attenzione collettiva. E’ inaccettabile che queste donne siano condannate a vivere questa tragedia come se fosse un destino personale.
Se ne parla male, sono d’accordo, con una certa dose di conformismo, anche perché ormai il problema non è capire cos’è la ‘ndrangheta, bensì come cambia le comunità, la società, le istituzioni, noi stessi.
Qualche sera fa con amici e conoscenti il discorso è caduto proprio sul tema. Ho avuto la sensazione che non parlavamo della stessa cosa, non c’era condivisione. Eppure dovrebbe essere facile. Anche io noto che ormai c’è una lotta delle versioni sul fenomeno ‘ndrangheta, differenti e a volte opposte. Conviene vincerla questa lotta, ma per farlo bisogna riempire di contenuti la storia di quanto accaduto e di quanto accade.
Se parlo di Lea Garofalo non ne posso parlare come di un femminicidio, ma di un omicidio di ‘ndrangheta con la peggiore forma di violenza che viene da chi ti è stato vicino, il padre di tua figlia. E questa violenza non nasce dal nulla, non si può essere giustificativi su di essa. Bisogna prenderlo sul serio questo male.
Poi c’è un secondo livello. Non è solo il tema a suscitare fastidio, ma anche che chi lo tratta sia una donna. Inutile girarci intorno, c’è un maschilismo ancora evidente, resistenze visibili. L’impegno, la voce femminile continua ad urtare un certo mondo.
Forse non è nemmeno un caso se i fondi per la realizzazione di questo spettacolo sono venuti tutte dal privato e dal nord Italia: Bergamo, Monza-Brianza, la Valle d’Aosta, i rispettivi coordinamenti di Libera, i sindacati, la Coop Lombardia e mi scuso se non li cito tutti, ma avremo modo di farlo in maniera puntuale. In molti di questi luoghi abbiamo già le date dello spettacolo prenotate …”
Però la prima è in Calabria, a Roccella Jonica …
“Sono davvero felice di questo. Roccella è il luogo natìo di un ramo della mia famiglia e vi ho passato molte estati. E poi questa è una storia calabrese, io sono calabrese. La libertà, l’impegno civile o è un valore che trasmetti e condividi soprattutto con chi ti sta vicino, nel luogo in cui vivi, con gli altri, oppure è il sogno di una pazza.
Per questo, fuori dai formalismi, ringrazio il Sindaco e l’amministrazione di Roccella Jonica che hanno voluto che la prima nazionale si tenesse in Calabria, nel loro comune. Lo considero un bel segnale.
Per la verità anche la seconda si tiene in Calabria, a San Marco Argentano, fortemente voluta dalla commissione pari opportunità del Comune.
Le tue canzoni sono spesso storie di cicatrici, un esercizio di empatia. Possono quindi riscaldare i cuori, offrire un nuovo sguardo più coinvolgente sull’argomento?
“Me lo auguro. L’empatia mi sembra importante per chi, come me, vuole raccontare storie cantandole. Quando ho scritto la Ballata di Lea ha voluto prima vedere la sua casa, la sua stanza, parlare con la madre, insomma immergermi nel suo quotidiano. Dietro ogni composizione c’è studio, approfondimento, dialoghi, incontri, prove, rifacimenti, una fatica che non si vede ma che è fondamentale.
A Palermo abbiamo provato in una scuola. C’erano i bidelli che assistevano, che ascoltavano. Mentre provavamo c’era un silenzio irreale, una attenzione palpabile. Da questo ho capito che eravamo sulla strada giusta, anche col linguaggio. Non eravamo di fronte a gente inconsapevole, ignara dell’argomento, disposta ad assorbire una qualunque versione di ciò che accade. Stavamo dando anima ai personaggi, maschili e femminili, e quando ho dato voce a Denise, la figlia di Lea, forse la parte più drammatica dello spettacolo, ho capito che stavo parlando alle mie figlie. Alla fine queste persone si sono avvicinate e mi hanno chiesto quando avremmo fatto lo spettacolo a Palermo.
Comunque, visto che siamo in una fase post virus, per farmi capire mi piace ricordare la frase di un libro che in questo periodo è stato citato infinite volte, La peste di Camus: “Dico soltanto che sulla terra ci sono flagelli e vittime e che, per quanto possibile, bisogna rifiutarsi di stare dalla parte del flagello”. Io non sto dalla parte del flagello. Sicuro!
La birra è finita.
Me ne vado con la sensazione di avere trovato un pezzo di Calabria, l’ennesimo, che mi fa sentire bene a casa, preservato da quella sorta di genius loci che alberga non solo nei luoghi ma anche in alcune persone.
Già, perché i luoghi veri non sono mai segnati in nessuna carta. Li devi sentire.
Ma questo è Moby Dick!

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