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giovedì, 28 Marzo, 2024
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Processo Aemilia, i giudici: “Cosca cutrese vero e proprio modello di business”

“La capacità di infiltrazione nel tessuto economico-imprenditoriale rappresenta il vero ‘salto di qualità’ della presenza della ‘ndrangheta nel territorio emiliano” e l’aspetto “che maggiormente evidenzia il suo carattere autonomo rispetto alla casa madre cutrese”

Lo scrivono i giudici della Corte d’Appello di Bologna Alberto Pederiali, Maurizio Passarini e Giuditta Silvestrini nelle motivazioni di 2.583 pagine depositate oggi alla sentenza di secondo grado del processo Aemilia contro la ‘ndrangheta, pronunciata il 17 dicembre del 2020 nell’aula bunker del carcere della Dozza contro 129 persone, condannate in totale a 712 anni di carcere. Il confronto col primo grado concluso nel 2018 a Reggio Emilia è difficilmente omogeneo, perché allora le sentenze furono due (abbreviato e ordinario) e la riunificazione dei riti in appello produce riduzioni di pene anche se confermate. La Corte, comunque decise allora per 898 più 325 anni di galera per 148 imputati.

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Tornando al “modello di business” messo in atto dalla cosca, i giudici continuano spiegando: “Non è emerso alcun elemento probatorio che susciti anche solo il sospetto che in tale ambito venissero impartiti ordini o anche solo che il sodalizio emiliano informasse o tenesse aggiornato il capo cosca cutrese (Nicolino Grande Aracri, ndr), eccetto nei casi in cui quest’ultimo non avesse un interesse particolare avendo egli investito denaro nel singolo affare o essendo destinatario di una parte dei profitti”.

Oltre alla protezione di poliziotti corrotti (un caso su tutti quello dell’ex autista del questore di Reggio Domenico Mesiano), contatti con la politica (ne è esempio la “cena delle beffe” del 2012 con l’esponente di Forza Italia Giuseppe Pagliani) e “il tentativo di strumentalizzare i mezzi di comunicazione per nascondere la presenza della ‘ndrangheta sul territorio reggiano”, il sodalizio “calabrese”, ricorreva poi a “metodologie di azione più raffinate che facevano leva sulla capacità operativa di creare facile ricchezza illecita appetibile da più parti del ceto imprenditoriale emiliano”.

Il quale “in tale modo, si è lasciato avvicinare per entrare in affari illeciti allettato dalla prospettiva di trovare canali di recupero dei crediti rapidi ed efficaci o facili e rapide soluzioni alla situazione di crisi economica in cui si era venuti a trovare”. Ma la cosca “era poi in grado di trasformarsi palesandosi come il più feroce degli aguzzini pronto a depredare, financo cannibalizzare, quegli stessi imprenditori che al sodalizio si erano rivolti convinti di trovare una facile soluzione ai loro problemi”.

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