“Un mese dopo la morte di mio padre all’Umberto I di Roma per coronavirus, con una chiamata, la polizia locale di Varese mi comunica che i suoi effetti personali erano lì, forse portati con le lenzuola che dalla capitale verrebbero sanificate in Lombardia. Non c’è stato nessun rispetto, né durante la malattia, né dopo il decesso, per lui e per noi famigliari, completamente abbandonati a noi stessi”. Sono amare le parole affidate a Tgcom24 da Daniele Scacco, romano di 34 anni, che il 18 aprile ha perso il padre Massimo, 66, dopo un mese in ospedale con tampone positivo e le ultime due settimane intubato in terapia intensiva. “Forse c’è stata negligenza nelle cure: ci dicevano che era migliorato, poi invece non ce l’ha fatta. E al dolore della perdita, anche la scomparsa di tutte le sue cose”, continua. “Per quattro giorni ho fatto il giro dei reparti dove mio padre era stato per recuperare le sue cose. Non oggetti di valore economico, ma sicuramente affettivo. Il suo portafoglio dove aveva messo la foto di mio figlio, l’orologio, il telefono, le chiavi di casa e quelle della mia auto, i documenti. Tutto sparito: era scomparsa una sacca con i suoi effetti personali. E ho presentato denuncia, anche se tutti facevano spallucce, non c’era il foglio dello spoglio del corpo; mi confessavano che succede sempre così, Covid o non Covid”. Fino al mese successivo al decesso, quando arriva un’inaspettata telefonata. “Era la polizia locale di Varese che aveva la trousse di mio padre con il telefono, il portafoglio senza soldi e gli altri oggetti. Sono rimasto scioccato: come facevano quelle cose a essere a oltre 500 chilometri di distanza? La risposta è stata che una persona insistentemente ha fatto avere questo borsello alla polizia locale e che il tutto poteva essere finito tra le lenzuola che da Roma verrebbero sanificate a Varese. Una risposta assurda”. “Sono spariti i soldi, ma ho riavuto questi oggetti. Non ho, però, l’ultima camicia di mio padre, l’ultimo pantalone, i suoi cambi, Un sacco pieno di vestiti è sparito. Dicono che l’hanno bruciato. Non è per quegli abiti in sé, il resto lo abbiamo donato ai bisognosi, ma è proprio il sentirsi trattati male da tutti, fino all’ultimo”. (Fonte: Tgcom)
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