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giovedì, 25 Aprile, 2024
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L’arte del cantore di storie che attraversa epoche e continenti

Catanzaro – Scende il silenzio tra i portici, nei cortili e nelle sale riempite dai Feaci quando arriva Demodoco, il cantore cieco, il divino come lo appella Alcinoo.
E’ accompagnato, ma cammina eretto, fiero.
E’ stato chiamato per rendere indimenticabile l’accoglienza allo straniero Odisseo che ancora non si è svelato.
Lo fanno sedere su un seggio appoggiato ad una colonna. Pontonoo gli mostra come prendere con le sue mani la cetra sospesa sul suo capo. Quindi gli avvicina un tavolo con un canestro e una coppa di vino. Ora può cominciare il suo racconto.
Sarà lui a squassare l’animo di Ulisse fino a portarlo al pianto, alla rivelazione.
Il canto lo travolge. La storia, che ha vissuto in prima persona si ripresenta ai suoi occhi. Invano cerca di impedire ai singhiozzi di farsi strada come ululati. Due volte si copre con il manto di porpora il volto. Cerca di bere. Tutto inutile. Nulla può il suo multiforme ingegno. Il pianto lo sovrasta rivelandolo.
Una scena magnifica.
A raccontarcela è naturalmente Omero che nello stesso tempo, con un esercizio di metaletteratura – come ricorda Matteo Nucci – svela da dove provenga il suo poema: dai cantori di storie.
Omero racconta ciò che precede il suo componimento, quando i lettori erano sostituiti dagli ascoltatori e non a caso in molti hanno voluto vedere in Demodoco il suo alter ego.
Difficile sfuggire a questa e ad altre suggestioni dopo aver visto la mostra “I fogli volanti e i dischi dei cantastorie tra Otto e Novecento” nel complesso San Giovanni a Catanzaro nel quadro del I° Festival nazionale Cuore Cantastorie, che invito caldamente a visitare.
Colpisce la vastità del materiale esposto in un percorso che denota la dimensione del fenomeno dei cantastorie nel panorama italiano e la circostanza che non c’è argomento, pubblico o privato, politico o personale, che sfugga all’attenzione narrante del cantore di storie che agli esordi si sostituisce a tutti i mezzi di comunicazione.
Certo, a riportare questa storia all’oggi c’è un problema. Anzi due.
Occorre che ci sia qualcuno che sappia raccontare ordinatamente e saporitamente un’esperienza, un fatto, una emozione. Ma raccontare stanca, richiede tempo, gusto per il particolare, acutezza visiva, pazienza. Il narrare sembra improvvisamente diventato superfluo, sommerso dalle immagini, sostituito dagli emoticon che anche io uso e che non mi impediscono di sentirmi un idiota.
Il secondo problema è che bisogna sapere ascoltare, trovare il tempo e la soddisfazione per farlo, riuscire a mettere da parte le proprie opinioni, la voglia di urlarle agli altri.
Nessun istinto moralizzatore. E’ visibile ancora una vecchia intervista a J. L. Borges che racconta della sua prima visita negli Stati Uniti e dello stupore di apprendere dalla viva voce di una professoressa universitaria che la sua materia di insegnamento era conversazione. Ma non conversazione in lingua straniera, proprio l’arte del conversare, ossia del sapere raccontare e ascoltare, quella cosa su cui è basata la convivenza, il dialogo e che dovrebbe essere naturale.
Eppure non c’è parte della terra in cui l’arte del cantore di storie non sia presente e radicata ed anche in questo il Festival ne ha offerto alcune significative testimonianze con artisti provenienti dall’Iran e dal Senegal.
In conclusione il Festival Cuore Cantastorie mi pare una buon contenitore di impressioni, una occasione quasi pedagogica per riflettere sul tema delle parole, sulla esperienza estetica del racconto e della necessità di riappropriarsene, su “storie che superano ogni tempo e ogni spazio e ci raccontano dell’essere umano e di nient’altro che dell’essere umano”.
Per questo non possiamo che augurare una nuova e ancora più interessante edizione.
Claudio Cavaliere

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