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giovedì, 28 Marzo, 2024
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Il figlio del pentito Bonaventura: «Devo lasciare l’Italia»

È un addio all’Italia quello del 20enne figlio dell’ex boss Luigi Bonaventura, scritto in una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, al Servizio centrale di protezione, al capo della Direzione nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, al capo della Commissione Antimafia, Nicola Morra e al magistrato e capo della Procura di Catanzaro, Nicola Gratteri.
Un addio che racconta i 14 anni di calvario della famiglia dopo la decisione del padre di essere un collaboratore di giustizia: «Sono maggiorenne, in piena età della ragione, e decido io, ora, per me: qui in Italia non vivo oggi e non vivrò domani».
Il grido di dolore è anche una denuncia: «A chi aveva promesso sicurezza e vita, avete fallito. Incessantemente la mia famiglia ha chiesto un cambio definitivo e completo di generalità, lettere ed istanze partono quasi sempre, ma quasi mai torna una risposta».
In particolare – racconta nella lettera che l’Agi ha potuto visionare – «relativamente di recente mi è stata comunicata l’impossibilità di frequentare l’università nella località protetta. Le possibili opzioni date sono tanto confusionarie quanto pericolose. Dovrei sfoggiare il mio cognome originale addirittura al di fuori della provincia e quindi senza alcuna protezione. In alternativa io e tutta la mia famiglia dovremmo nuovamente trasferirci ed utilizzare un documento di copertura non definitivo».
Una carta che però «ha funzionalità limitata all’azione per cui è stata emessa: per esempio sarei Rossi dietro al banco dell’università e Bonaventura fuori dalla provincia universitaria. Ho già vissuto così, con due nomi a seconda dell’evenienza, e posso assicurare che, con la confusione, l’irrealtà ed il sospetto che ciò porta, il fattore sicurezza è danneggiato. In entrambi i casi non verrebbero sostenuti né i costi di spostamento né di alloggio. E per via della mia impossibilità di lavorare nella località protetta, non ho alcun modo di compensare le spese che continuamente si accumulano sulle spalle della mia famiglia. Ho quasi 20 anni, sono obbligato ad essere un peso e impedito a diventare un uomo autonomo: tutto ciò di cui ho bisogno mi è negato», lamenta il giovane.
Le motivazioni della rabbia sono nella storia stessa della sua famiglia e nei pregiudizi che ha dovuto affrontare.
«Figlio di un collaboratore di giustizia, Luigi Bonaventura – racconta nella missiva il ragazzo – vivo sotto programma da quasi 14 anni: io e la mia famiglia veniamo presi, spostati in un’altra città, senza conoscenze, appigli o aiuti, ripresi nuovamente, sballottolati come giocattoli; cerchiamo di costruire con enormi difficoltà e sacrifici, e poi spostati nel giro di pochi giorni con disumana semplicità».
A rendere la vita impossibile, poi, è «la paura che il cognome che porto possa risvegliare gli animi vendicativi di persone che mai un protetto dello Stato dovrebbe trovare vicino a sé. Ho accettato limitazioni agli spostamenti, alla socialità, al lavoro alla partecipazione alla vita pubblica e politica, alle mie libertà individuali per rimanere il più invisibile possibile, per poi sentirmi dire, dalla segretaria della Preside di scuola: “Tu sei Bonaventura, il figlio di… non ti preoccupare, sappiamo già tutto”».
Il passato mafioso del padre «è qualcosa che è ormai alle spalle e che è stato dovuto ad un contesto in cui si è trovato unicamente per nascita». La decisione di collaborare però «andrebbe elogiata in quanto ha spezzato quella linea ereditaria che avrebbe fatto anche di me uno ‘ndranghetista, chiede il ragazzo, che invece ancora oggi si sente “bollato come un mafioso” o come figlio di “un infame”».
Il 20enne sottolinea la differenza di trattamento tra «testimoni e collaboratori di Giustizia, relegati all’ultimo gradino della scala sociale».
La madre, ad esempio, ha visto «la propria attività bruciata in seguito per rappresaglia dalla ‘ndrangheta e mai ha avuto i giusti risarcimenti che spetterebbero a chi subisce crimini di mafia».
«Comunico con enorme, sentita e provata tristezza, che entro la metà di questo mese, dall’Italia io parto per l’estero, verso una reale possibilità di lavoro, di studio, di sicurezza e di vita. Nella speranza che le cose cambino per me, la mia famiglia e per tutti i protetti, nella speranza di poter tornare un giorno in sicurezza in Patria. Per il momento, addio», conclude la missiva.

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