Diego Armando Maradona, l’argentino venuto dalla fine del mondo per scatenare la fine del mondo al San Paolo e al San Carlo, non c’è più.
Il San Paolo e San Carlo, due santi per un’unica divinità: l’argentin-napoletano smisurato, distillato nella sua essenza più naturale. Al di là del bene e del male.
Tutto il mondo piange la morte del Dio del calcio: Napoli è sotto shock, devota a colui il quale ha portato ai piedi del Vesuvio due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Italia e una Coppa Uefa, facendo battere ed innamorare il corazon dei partenopei.
Maradona se n’è andato ieri ma sarebbe potuto morire dieci, cento, mille volte per la sua vita da montagne russe. Mai grigio: o bianco o nero.
Un uomo talvolta preso a calci dalla vita, vissuto in un mondo racchiuso in un’esplosiva sfera di cuoio. Si, perché nel pallone ci vide dentro il mondo, con il quale palleggerà per tutta la vita.
I suoi palleggi, i protagonisti assoluti di una personale scenografia che solo una canaglia come lui riusciva a colorare di un azzurro tutto napoletano.
Un azzurro di una brillantezza tale da esistere solo sulla tavolozza del sentimento calcistico dei suoi idoli.
È stato questo lo spirito che lo ha reso grande: rimanere, nonostante tutto, sempre e solo un bambino ribelle con il pallone.
La sfida contro le leggi della fisica
Interpretando lui il calcio in modo personale, è difficile dare una definizione tecnica di chi fosse ed in chi si trasformasse quando entrava in campo: faceva cose che davano l’impressione che le leggi della fisica si annullassero, aspetto che mal si conciliava con la sua fisicità, oggettivamente minuta, un dato questo per cui strabuzzavi ancora di più gli occhi perché non riuscivi a capire come riuscisse a fare quello che faceva.
Cose impensabili che altri non possono fare. Gli altri, gli esseri umani.
Fede, ironia ed orgoglio nazionale
Era capace di polemizzare con tutti, persino con Papa Giovanni Paolo II: “In Vaticano ho visto i tetti d’oro, poi ho incontrato il Papa e mi ha detto che la Chiesa si preoccupava dei bambini poveri. Allora venditi il tetto amigo, fai qualcosa!».
In occasione di una sua visita recente in Vaticano, el Pibe affermò: “Quando ho visto l’oro nel Vaticano non ho seguito più perché tanti bambini in Africa muoiono per la febbre. I cardinali guadagnavano come se giocassero nell’Inter o nel Napoli. Sono tornato vicino alla Chiesa per Papa Francesco (Franceschito) perché lui ha cambiato le cose. Mi ero allontanato dalla Chiesa perché pensavo non facesse abbastanza per i bisognosi, ma con Francesco è diverso “.
Mescolava fede e orgoglio nazionale, il campione celebrato come una divinità pagana a Napoli. In piazzetta Nilo, al Bar Nilo, c’è ancora l’edicola votiva in suo onore, a quasi trent’anni dall’ultima partita ufficiale con la maglia del Napoli, prima del traumatico distacco.
Da sempre dalla parte degli ultimi: simbolo partenopeo di rivalsa sociale.
“Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires”.
Il generoso calciatore ha mostrato tutta la sua solidarietà agli orfani di Pompei e negli anni di permanenza a Napoli ha dedicato loro una particolare attenzione.
Nel 1985 l’attaccante di Acerra è stato contattato da un papà disperato per il figlio bisognoso di un intervento che gli avrebbe salvato la vita. Il Presidente Ferlaino non acconsentì alla richiesta, Maradona pagò la clausola di 12 milioni alla sua assicurazione e giocò su un «campo di patate», scaldandosi fra pozzanghere e auto parcheggiate: “Che si fottessero i Lloyd di Londra. Questa partita si deve giocare per quel bimbo”.
Come ricordò una volta Jorge Valdano: “Povero, vecchio Diego. Abbiamo continuato a dirti per tanti anni “Sei un dio”, “Sei una stella” e ci siamo scordati di dirti la cosa più importante: “Sei un uomo”.
“Dieguito”, tradito dal suo cuore. Troppo grande.
Bruna Critelli