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sabato, 3 Maggio, 2025
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Corte di Cassazione: la ‘ndrangheta ha partecipato alle stragi che hanno insanguinato l’Italia

Quando lo scorso dicembre i giudici della sesta sezione della Suprema corte hanno deciso di annullare con rinvio la condanna all’ergastolo per il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano ed il mammasantissima di Melicucco Rocco Santo Filippone nel processo ‘Ndrangheta stragista, i soliti giornaloni si erano scatenati. C’era chi parlava di “processo stroncato”, chi aveva accusato la Procura di aver seguito “teoremi” assurdi, chi ha parlato senza mezzi termini di “crollo” o assenza di prove di un patto tra mafia e ‘Ndrangheta negli anni delle stragi. Ecco però che leggendo le 51 pagine di motivazioni della sentenza emessa dalla Sesta sezione Penale (Presidente Pierluigi Di StefanoMariella Iannicello consigliera estensora, ndr) si scopre che in realtà la Cassazione ha sancito proprio il contrario: la ‘Ndrangheta ha partecipato alle stragi e agli attentati ai carabinieri che rientrano a pieno titolo in quella strategia stragista ordita nei primi anni Novanta proprio per l’obiettivo di piegare lo Stato e ottenere benefici legislativi e penitenziari dalla politica. E’ scritto nero su bianco: “Ad avviso di questo Collegio, la Corte di assise di appello ha in modo conseguenziale e non manifestamente illogico ricostruito i rapporti e le cointeressenze tra le due organizzazioni criminali nell’arco temporale degli agguati e soprattutto, per quanto interessa in questa sede, anche gli incontri tra esponenti di dette organizzazioni criminali sul territorio calabro con cui la ‘Ndrangheta decideva di aderire alla “strategia stragista” di cosa nostra, mediante il compimento dei delitti sub iudice anche sul territorio di pertinenza”. E poi ancora si legge che “la causale degli omicidi e dei tentati omicidi di cui si discorre, dunque, è stata adeguatamente individuata dalle due conformi sentenze di merito nella attuazione della strategia del terrore con l’intento di indurre lo Stato a trattare in tema di benefici penitenziari e quanto alla disciplina dei ‘pentiti'”. Al contempo si dà atto che “a fondamento di tale ricostruzione, si pongono la varietà e la molteplicità dei convergenti contributi narrativi, provenienti da soggetti a pieno titolo inseriti o comunque contigui ai contesti criminali in oggetto cui si affianca la fondamentale argomentazione di ordine logico secondo cui delitti ‘eccellenti’, come quelli in oggetto, potevano essere portati a compimento in territori notoriamente sotto il controllo della ‘Ndrangheta solo con il placet delle “cosche” in quel momento dominanti”.
E sul punto viene riconosciuto che “la rapida ascesa di Consolato Villani (tra i killer dei carabinieri e poi divenuto collaboratore di giustizia, ndr) che – dopo gli attentati – fece ‘una carriera fulminea’ all’interno dell’organizzazione di ‘Ndrangheta raggiungendo i gradi più elevati della società maggiore, prima di ‘evangelista’ e poi di ‘santa’, né è una chiara attestazione”.

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Antonino Fava e Vincenzo Garofalo

Dunque, dopo decenni, come aveva più volte ricordato il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo (oggi reggente funzioni della Procura di Reggio Calabria), è stato dimostrato che l’appoggio della criminalità organizzata calabrese nelle stragi non era solo morale, ma concreto. “La tesi alternativa – scrive sempre la Cassazione – pur sostenuta dai difensori, che si fosse piuttosto al cospetto di omicidi compiuti da due giovani “scellerati”, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani, è stata dunque superata dalla Corte distrettuale con il ricorso ad argomentazioni congrue, conformi ai canoni della logica e al dato probatorio, non residuando spazi per il sindacato sui vizi della motivazione”.
Una tesi che, ne siamo certi, si cercherà di sollecitare nel nuovo processo d’appello che avrà comunque dei paletti più stretti su cui intervenire.

Approccio storeografico

Certamente peseranno come macigni le considerazioni su alcune valutazioni compiute dai giudici di primo e secondo grado, caratterizzate, secondo la Suprema Corte “da ‘elefantiasi’ per la motivazione ‘ipertrofica’, e, nel contempo, dall’essere la maggior parte del suo contenuto del tutto eccentrico rispetto alle imputazioni: pur se queste erano incentrate su fatti ben specifici, la motivazione si spinge, soprattutto ricorrendo all’acritica trascrizione/esposizione delle prove, a trattare in modo indistinto altre vicende non facilmente ricollegabili al tema centrale, almeno secondo i criteri propri di un provvedimento giurisdizionale”.
Ancora una volta la Sesta sezione richiama ciò che aveva espresso nel processo sulla trattativa allo Stato-mafia in cui accusava i giudici di aver avuto un “approccio storiografico” nell’affrontare i temi del processo.
Secondo la Cassazione entrambe “le sentenze di merito sono evidentemente caratterizzate dalla eccessività e ridondanza delle motivazioni, tali da offuscare le ragioni della decisione. Presentano un contenuto in larga parte del tutto eccentrico e, apparentemente, mirato alla ricostruzione alternativa degli ultimi 50/60 anni di storia italiana, formulando vaghe ipotesi, più che ricostruzioni, di relazioni tra bande criminali mafiose e non, gruppi politici estremisti votati alla eversione dell’ordine democratico, contesti istituzionali genericamente definiti di “servizi deviati” e simili per dare una chiave di lettura personalizzata della nascita e diffusione di più attuali e recenti movimenti e esponenti politici”. “In tale modo – aggiungono i giudici – le sentenze di merito rischiano di non svolgere tanto la funzione di ricerca della verità processuale dei tragici fatti dai quali muove il processo, gli attentati omicidiari in danno di valorosi esponenti delle forze dell’ordine, oggetto circoscritto dai capi di imputazione, pur ampi nel definire il contesto criminale degli agguati, quanto quella di attestare tali generiche ipotesi finendo per attribuirvi la suggestione di verità (quantomeno) processuale appunto perché contenute in sentenze penali”.
Parole gravi.
Le sentenze si rispettano, certamente, ma ciò non significa che non si possano commentare laddove appaiono evidenti intenti di ridimensionare tutto ciò che è emerso in questi anni di processi, dove sono stati ricostruiti fatti che hanno certamente segnato il corso della nostra storia.
Delitti come le stragi per essere capiti e dimostrati devono essere ovviamente calati in quel contesto più ampio, politico, sociale che li ha visti maturare. Non per la Sesta sezione penale che azzera completamente gli elementi emersi nel processo d’appello.

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Giuseppe Lombardo © Imagoeconomica

Processo scomodo

E’ ovvio che il processo ‘Nadrangheta stragista sia ritenuto scomodo, non solo perché dimostra l’asse tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta dietro le stragi, ma soprattutto perché in aula è stato ricostruito il disegno politico dietro di esse.
E’ questa la nota dolente che si vuol far finta di non vedere.
Poco importa se decine e decine di testimonianze e documenti hanno dimostrato l’esistenza di certi sistemi criminali. Poco importa se i fatti dimostrano come negli anni Novanta le organizzazioni criminali siano passate dall’appoggiare il progetto delle leghe meridionali a sostenere nel 1994 il neonato partito Forza Italia.
Quel “cambio di cavallo”, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non sarebbe stato frutto di una scoperta improvvisa ma, come ricordato dal pentito Tullio Cannella, figlio di un “progetto parallelo a quello ricondotto ai livelli medio bassi di Cosa nostra e affidato a lui da Leoluca Bagarella. Un progetto ricondotto a Bernardo Provenzano”.
Sempre Cannella spiegò così lo stop improvviso: “Bagarella mi disse che stava nascendo una situazione in cui loro credevano molto. Si trattava di un movimento che faceva capo all’onorevole Berlusconi e per questo dovevo stare calmo con ‘Sicilia Libera’. Bagarella parlava per lui, per Provenzano e a nome degli interessi di Cosa nostra. Me ne parlò nel dicembre 1993 quando io ancora non sapevo della discesa in campo di Berlusconi e mi fece il nome di Forza Italia ancora prima che diventasse di dominio pubblico. Mi venne detto che tutti i voti sarebbero andati a questo movimento e noi facemmo un club ‘Forza Italia-Sicilia Libera’”.
Cannella parlò di Forza Italia anche con il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano“Mi disse di evitare queste cose e di lasciare fare a chi, come lui, ha i contatti giusti. Non mi ha fatto i nomi di questi contatti giusti. Mi disse che bisognava risolvere il problema dei pentiti”.
E’ un fatto noto che la discesa in campo di Berlusconi in via ufficiale è datato 26 gennaio 1994.
Pochi giorni prima c’era stata una convention, a Roma, organizzata da Publitalia presso l’hotel Majestic di via Veneto in cui si parlò del partito ormai nascente.
Hotel che si trova nei pressi della stessa zona del bar Doney, in cui si incontrarono Gaspare Spatuzza e Giuseppe Graviano il quale, sorridente, parlò dell’accordo raggiunto con “gente seria”.
In primo grado i giudici della Corte d’Assise di Reggio Calabria avevano scritto che “a quel punto Cosa nostra, ma anche la ‘Ndrangheta abbandonano il progetto politico separatista/scissionista e puntano tutto sul partito Forza Italia. Lo diranno sul fronte siciliano in maniera convergente i collaboratori Cannella, Di Filippo, Di Giacomo, Garofalo, Onorato Spatuzza, Malvagna, Romeo (…) e anche i voti della ‘Ndrangheta conversero su Forza Italia”.
Sul punto, alla pletora di dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, vanno aggiunti due elementi di grandissimo rilievo.
Il primo è la dichiarazione di Giuseppe Piromalli, succeduto al fratello “Mommo” (deceduto per cause naturali nel ’79) al vertice della cosca, che nel febbraio 1994, durante un processo a suo carico a Palmi in cui era imputato anche per tentata estorsione e danneggiamenti con esplosivo ai danni dei gestori Fininvest (ai quali era stata chiesta una tangente da 200 milioni di lire), prese la parola in aula gridando: “Voteremo Berlusconi! Voteremo Berlusconi!”.
Il secondo è l’intercettazione acquisita nel processo ‘Ndrangheta stragista in cui l’avvocato ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli, commentando la notizia della sentenza di primo grado del processo trattativa Stato-mafia, diceva ai suoi interlocutori: “Sto leggendo questa storia della trattativa Stato-mafia… Berlusconi è fottuto”. E poi ancora: “Dell’Utri… la prima persona che contattò per la formazione di Forza Italia fu Piromalli a Gioia Tauro. Non so se ci ragioniamo…”.
E certamente non è un caso se Giuseppe Graviano ha scelto di rompere il proprio silenzio nel corso del processo per lanciare messaggi all’esterno e raccontare la sua verità sui rapporti (a suo dire di natura economica) proprio tra la sua famiglia e quella di Berlusconi.

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Silvio Berlusconi © Imagoeconomica

Questi sono fatti e non “ipotesi storiche” come invece sostenuto dai Supremi giudici.
Con tutti questi elementi tanti benpensanti rifiutano di fare i conti.
La Cassazione con poche pagine depotenzia, ritenendola inconsistente, l’istruttoria in appello, criticando testimonianze come quella dell’ufficiale di polizia giudiziaria Michelangelo Di Stefano, addirittura accusato di non aver dichiarato le fonti nella sua deposizione.
Rispondendo alle domande delle parti Di Stefano aveva evidenziato una lunga serie di eventi che, prima di arrivare alle stragi degli anni Novanta, hanno fatto la storia del Paese.
Fatti come il rapimento e la morte di Aldo Moro, il golpe Borghese, il caso di Sigonella, il caso Moby Prince, l’esistenza della struttura paramilitare Gladio, la figura di Vincenzo Li Causi (appartenente al Sismi che aveva coordinato il centro Scorpione e che fu ucciso in circostanze misteriose nel novembre 1993), o ancora la morte in carcere del boss Antonino Gioè. E poi ancora gli elementi emersi sui rapporti intrattenuti dalla criminalità organizzata calabrese con ambienti dei servizi di sicurezza e l’estremismo di destra.
Rapporti che sono divenuti sempre più stretti a partire dalla fine degli anni Sessanta. Basti pensare al summit del 26 ottobre del 1969, quando un pattuglione della squadra mobile reggina sorprese un centinaio di ‘ndranghetisti in pieno Aspromonte, a due passi dal Santuario della Madonna della Montagna di Polsi, intenti a discutere la riorganizzazione della criminalità reggina.
Un evento a cui parteciparono uomini di ‘Ndrangheta, su tutti il boss Paolo De Stefano, ma anche soggetti appartenenti all’eversione nera come il principe Junio Valerio Borghese, il marchese Felice ZerbiBruno Di LuiaStefano Delle Chiaie, o Pierluigi Concutelli (anche se alcuni documenti dimostrerebbero che il giorno prima aveva iniziato la propria detenzione nel carcere di Palermo, ndr) che non furono arrestati.
Un focus importante che era stato ricostruito in parte anche in primo grado, grazie anche al contributo di testimoni come il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo o collaboratori di giustizia come Cosimo Virgiglio e Pasquale Nucera, mettendo in evidenza le compenetrazioni tra massoneria e ‘Ndrangheta, nonché il ruolo che Licio Gelli aveva avuto in diverse dinamiche.
Convergenze di interessi che si sono ripetute anche nel periodo delle stragi con lo sviluppo del progetto politico delle leghe meridionali.

Il colpo di spugna

Di fatto vengono bollate come “dichiarazioni tanto clamorose quanto al di fuori della mera plausibilità di conoscenza” le propalazioni dei collaboratori di giustizia Parisi e Bruzzese.

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Giuseppe Graviano

Per tutti questi elementi “considerando che si è in presenza di prove non incidenti sull’oggetto del processo, va dato atto della necessaria correzione della motivazione, da ritenere abnorme nella parte in cui affronta temi non oggetto del processo e con impostazione di tipo storico/giornalistico sulla base di elementi non qualificabili quali prove ammesse nel processo penale (si fa in particolare riferimento soprattutto ai paragrafi “rapporti tra organizzazioni criminali – politica – massoneria”(p. 1188) e “Falange Armata e Servizi Segreti” (p. 1210) che conferiscono “di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, [e] hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio”).
Come cancellare i fatti dalla storia. Come se l’omicidio dei carabinieri non fosse mai stato rivendicato proprio dalla Falange Armata e quindi non sia necessario comprendere perché Cosa nostra e ‘Ndrangheta, come raccontato da decine di pentiti, utilizzarono quella sigla che negli anni Novanta firmò stragi e delitti.
Non solo. La Cassazione arriva persino ad affermare il principio della “presunzione di innocenza”, senza fare il nome, di un eventuale “soggetto terzo che sia sostanzialmente indagato in un processo nel quale la sentenza venga ad affermare la sua responsabilità per fatti che non hanno alcun reale collegamento con l’oggetto della imputazione, non rivestendo alcun interesse. Ciò che, invero, si ritiene essere avvenuto nel presente procedimento”.
Dobbiamo dedurre che per la Corte la ricerca della verità sulle stragi è possibile solo in certi limiti?

Si riparte da Graviano e Filippone

Certamente si riparte dal capo di imputazione contestato a Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone. Il boss di Brancaccio e il mammasantissima di Melicucco (condannato definitivo per il reato di associazione mafiosa) sono accusati di essere stati mandanti di quegli attentati ed omicidi avvenuti tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994, in cui persero la vita anche gli appuntati Antonino Fava e Vincenzo Garofalo (uccisi il 18 gennaio sull’autostrada Salerno-Reggio, ndr). La Cassazione ritiene che “l’affermato ruolo di mandanti ascritto agli attuali ricorrenti non sia dimostrato adeguatamente perché le dichiarazioni valorizzate sono connotate da evidenti e, allo stato, insanabili contraddizioni risultanti dal testo della sentenza che la Corte distrettuale non ha in alcun modo chiarito”.

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Rocco Santo Filippone

Il riferimento è al dichiarato dei collaboratori di giustizia Antonino Lo Giudice e Consolati Villani. “Già il solo raffronto tra i verbali delle dichiarazioni (per la parte di interesse trasfusi nella sentenza) rese da Consolato Villani e da Antonino Lo Giudice quanto alla individuazione della loro “fonte di conoscenza” mette a nudo un insanabile contrasto: entrambi dicono di avere appreso dall’altro le informazioni in oggetto”). Secondo i giudici si crea così un “corto circuito” su cui la Corte d’assise d’appello non è intervenuta. Per “sanare” il contrasto, scrivono i giudici “La Corte di appello, nei limiti che saranno indicati, dovrà procedere ad un nuovo giudizio e, in particolare, dovrà valutare se, rispetto alle lacune del ragionamento probatorio e dell’argomentazione della motivazione della sentenza impugnata (che in seguito saranno evidenziate), il “riascolto” ed eventualmente il ‘confronto’ tra i collaboratori, Consolato Villani e Antonino Lo Giudice, possa avere rilievo”.
(Fonte: antimafiaduemila)

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