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venerdì, 19 Aprile, 2024
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“Barre”, il rapper Kento racconta la rabbia e la poesia degli adolescenti detenuti

“Tutto ciò che sono stato/ non lo racconta il mio reato / ma voglio lasciarlo nel passato / voglio uscire cambiato”. Sono le parole di Hicham, uno dei giovani allievi del rapper Kento, uno dei tanti detenuti adolescenti che l’artista reggino ha conosciuto in dieci anni di laboratori negli istituti penitenziari minorili italiani. Adesso le storie di quei ragazzi, insieme alle loro strofe fatte di rabbia, abbandono, passione e speranza, sono diventate un libro, “Barre”, edito da Minimum Fax (dal 28 gennaio nelle librerie) e accompagnato, in un progetto più ampio, dallo street album “Barre Mixtape”, già fuori sulle piattaforme digitali.
Reggino, 45 anni, all’anagrafe Francesco Carlo, il rapper si è avvicinato all’ambiente della musica antagonista a Roma alla fine degli anni Novanta. Posizionandosi nell’hip hop e nel reggae, inizia una collaborazione con i Kalafro Sound, anche loro reggini, e in questo sodalizio esordisce nel 2007 con “Solo l’amore”. Dopo il disco da solista “Sacco e Vanzetti”, nel 2010 l’MC torna a lavorare con i Kalafro in “Resistenza sonora”, album e singolo dedicati alla ribellione contro la criminalità organizzata.
“Questo libro – dice Kento nel prologo di “Barre” – è dedicato a tutte le persone che mi hanno aiutato a scriverlo e che non posso nominare”. Ci sono Hicham, Adrian, Aboud, Leyla. Nomi di fantasia, come la cornice narrativa che protegge l’anonimato dei protagonisti. Ci sono i sogni e le paure. C’è il ragazzo silenzioso che passa ore in biblioteca a leggere Omero e Melville – racconti di viaggi, di grandi spazi. Ci sono quelli che assoldano il maestro di rap come un Cyrano per farsi aiutare a comporre una canzone per la morosa che li aspetta fuori. E quelli che misurano l’autorevolezza degli artisti in termini di like ma poi ammettono che sì, in fondo Kento è bravo pure se non ha 400.000 visualizzazioni come il loro amico del quartiere, fuori.
C’è il ragazzo straniero, che ha trascorso in cella la sua prima notte italiana e ancora non è uscito – quando accadrà non ha una casa dove tornare ma ha deciso che vuole imparare il mestiere del barbiere. C’è la ragazza con la treccia e la maglietta laptop che sembra uscita da un film di Spike Lee e scrive: “Posso essere ghiaccio oppure fuoco / se tu mi senti / per te sono solo un gioco? /Te ne penti”. E’ una delle ospiti femminili del carcere, che possono partecipare ai laboratori in modalità cospiratoria, con la complicità delle maestre d’arte che fanno da corrieri di lettere e biglietti.
Ci sono gli amori impossibili tra i detenuti separati dal genere, qui si nega ogni contatto tra sessi opposti ma loro lo stesso si lasciano messaggini romantici sulle pareti delle stanze in cui, a turni divisi, si svolgono le attività – com’era prima dei social, qui le chat non sono mai arrivate. C’è l’estate troppo lunga e afosa, che affolla la testa di pensieri sugli amici, la famiglia, le fidanzate. Corridoi silenziosi perché il personale è in ferie e la solitudine diventa insopportabile. Ci sono quelli che si infliggono tagli e mutilazioni – batterie del telecomando tv ingerite, neon spaccati a pezzi e masticati – questi ragazzi sono abili a eludere la sorveglianza delle guardie, forse pure ad arrendersi a certi agenti cattivi che li odiano e li etichettano come umanità a perdere (nel carcere i fascisti non sono un mito, esistono davvero, dice Kento). I giovani reclusi sono micce accese, per rispondere a una provocazione ci si gioca un premio, si allunga pena che stava per concludersi.
Nel libro lei fa capire che molti detenuti sono usciti dall’istituto minorile per entrare nel carcere. Ha più saputo nulla di qualcuno di loro? Qualcuno le ha scritto o l’ha contattato, una volta scontata la pena?
«Assolutamente sì, sono rimasto in contatto con molti di loro, e mi è capitato addirittura di far salire sul palco qualcuno. Ci sono anche delle storie belle di riscatto da raccontare, per fortuna. In un ambiente ristretto come quello carcerario, si possono creare rapporti di stima ed amicizia anche trascorrendo poche ore insieme, appunto perché il tempo scorre in modo diverso rispetto al mondo dei liberi».
Lei descrive gli istituti minorili come ambienti molto simili al carcere degli adulti. Perché questa durezza, trattandosi di minori?
«Il problema non è una durezza esplicita, ma l’atteggiamento bigotto e punitivo nei confronti del giovane detenuto, in piena violazione dell’articolo 27 della Costituzione, dove il fine della pena dev’essere la rieducazione del condannato. Trattandosi di ragazzi così giovani, non possiamo nemmeno parlare di ri-educazione o re-inserimento, perché di fatto questi adolescenti non sono mai stati inseriti all’interno della società, e quindi è una responsabilità ancora più pesante in capo all’istituzione. C’è una serie complessa di motivi, tra cui sicuramente un certo senso di superiorità morale da parte di parecchi tra gli adulti che se ne occupano. Anche il fatto che si tratti di una realtà rigidamente burocratizzata non aiuta».
La storia finisce in modo amaro, con l’interruzione del progetto per motivi burocratici e lei ha parole forti contro questo stato di cose. Quando accadono situazioni del genere (penso anche alla scuola) per i ragazzi è ancora possibile dare credibilità alla società degli adulti?
«Non credo si possa dare credibilità o fiducia a ciò che non conosciamo e l’istituzione carceraria minorile è spesso totalmente incomprensibile anche per osservatori adulti, figuriamoci per minorenni spesso già gravati da pesanti problemi personali. In molti di questi giovani è forte la sensazione di essere dimenticati e condannati a un destino da sconfitti e da ultimi».
Il disco “Barre Mixtape” contiene tredici tracce tra boombap e rap ballad classiche, è ispirato ai temi del libro e punta a uno sviluppo live, appena si potrà. So che è prevista anche un’edizione in vinile da collezionisti, cento copie numerate a mano e autografate, su supporto in formato 180 grammi nero con effetto marmorizzato giallo, che richiama la copertina del libro
. Quando uscirà?
«Il disco nasce in modo parallelo al libro, ma non si sovrappone ad esso. E’ una colonna sonora che lo accompagna ma non ne racconta in modo didascalico gli episodi. Durante il primo lockdown, la cosa che mi dava più serenità e mi faceva scordare tutto era mettermi a scrivere. E quindi le pagine del libro e i testi delle canzoni si ammucchiavano paralleli sulla mia scrivania. Uscirà in vinile a marzo per Aldebaran Records, il preordine è già aperto e pare stia andando molto bene».
 
Come artista come  sta vivendo le limitazioni della pandemia, le chiusure dei teatri, l’impossibilità di avere pubblico agli spettacoli?
«La doverosa premessa è che c’è chi se la passa peggio di noi artisti, penso appunto ai detenuti, che in questo periodo devono fare ancora più sacrifici del solito. Ciò detto, per me è stato molto difficile, abituarmi a non fare concerti, che costituivano fino a quel momento una parte importantissima della mia vita dal punto di vista psicologico ed economico. Ho provato a fare esibizioni online ma non fanno per me: già in un primo momento mi sono reso che non mi davano nessuna emozione; successivamente hanno cominciato a nausearmi. Aspetto il momento in cui si possa risalire su un palco vero»
Il rap resta il genere più amato dagli adolescenti, ma cosa ne sanno realmente i Duemila e oltre? Non le sembra che la proliferazione di autori che spesso di rap hanno ben poco possa confondere le idee al target più giovane?
«Questo discorso si potrebbe fare con qualsiasi musica di successo, a partire dal rock! Più un genere diventa diffuso, più si diluisce ed edulcora. Ma è altrettanto vero che il riconoscimento sociale diffuso finisce per dare spazio anche agli artisti e progetti meno inclini ai compromessi, che rimanevano rinchiusi in un ambito underground molto ristretto. Sta a noi cercare di farci largo e di mantenere il messaggio originale. Ma non è un problema, siamo abituati a combattere».
Sempre a proposito di rap, negli anni si è discusso sui contenuti violenti e misogini di molti testi… polemica che da sempre caratterizza la libertà di ogni tipo di arte, ma per il rap si è fatta progressivamente più mirata perché è un genere ascoltato e dai ragazzi e c’è chi teme (genitori, insegnanti, psicologi) possa influenzare le loro menti e nutrire un’immaginazione che può tramutarsi in comportamenti reali. Cosa ne pensa?
«Sono contrario alla censura. Non si può impedire a qualsiasi cantante o scrittore di dire qualcosa di stupido. Anzi: censurarlo servirebbe a calamitare molta più attenzione sulle sue parole. Nel rap italiano ci sono parecchi testi problematici dal punto di vista del sessismo, ma anche dell’esaltazione di alcuni stili di vita superficiali ed edonistici. La soluzione sta nell’educare all’ascolto consapevole fin dalla più tenera età. Un ascoltatore critico sa scegliere, e determina il successo o meno di un artista: un rapper senza pubblico è soltanto un tizio che grida in rima (e a volte, ultimamente, neanche in rima…)».
Lei è molto legato alla sua città natale, pur vivendo da anni a Roma. I nostri bisnonni vivevano cinquant’anni in America e tornavano in Calabria o Sicilia per morire nella loro terra. Lei tornerebbe a vivere a Reggio?
«Il rapporto della mia generazione di emigranti è di amore-odio nei confronti della Calabria. Amore per la nostra gente, per la nostra storia, cultura, natura, cibo, dialetto. Odio nei confronti della mancanza di possibilità che, nonostante tutto, continua ad affliggerci e nei confronti di una criminalità vigliacca e complice della politica che – pur non essendo assolutamente solo un fenomeno legato alla nostra terra – finisce per divorare tanto del bello che abbiamo. Io in Calabria vorrei tornarci a vivere, non a morire. Però, purtroppo, oggi mi sarebbe impossibile farlo».
Isabella Marchiolo

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