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giovedì, 6 Novembre, 2025
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Annullato l’ergastolo ad Alessia Pifferi per l’omicidio della figlia: in appello condanna a 24 anni

La Corte di assise di appello di Milano ha condannato a 24 anni di reclusione Alessia Pifferi, cancellando l’ergastolo inflitto in primo grado. La donna (originaria del Crotonese) è imputata per l’omicidio della figlia Diana abbandonata e lasciata morire di stenti nel luglio 2022. La pena è stata ridotta in appello perché i giudici hanno escluso l’aggravante dei futili motivi (resta solo quella del vincolo di parentela, già in primo grado era stata esclusa quella della premeditazione) e riconosciuto le attenuanti generiche. Anche in questo caso Pifferi è stata reputata capace di intere e di volere.
Durante il processo di secondo grado il tribunale aveva infatti chiesto una perizia psichiatrica su Pifferi, che come quella fatta in primo grado aveva stabilito che la donna era in grado di intendere e di volere. Nella sua requisitoria la procuratrice generale di Milano Lucilla Tontodonati aveva quindi chiesto la conferma dell’ergastolo anche in appello, insistendo soprattutto sui risultati della perizia. L’avvocata di Pifferi Alessia Pontenani aveva chiesto invece ai giudici di riconoscere il vizio parziale di mente o comunque di diminuire la gravità del reato per cui era stata condannata in primo grado (omicidio volontario pluriaggravato).

Alessia Pifferi abitava a Milano nella zona di Ponte Lambro, un quartiere vicino all’aeroporto di Linate, nella zona sudorientale della città. Il 14 luglio del 2022, un giovedì, uscì di casa poco prima delle 18 per raggiungere il compagno a Leffe, un comune in Valseriana, in provincia di Bergamo. Lasciò la figlia in casa da sola, senza avvertire parenti, amici o vicini di casa. Pifferi disse al compagno che la bambina era al mare con la sorella. Ai magistrati che la interrogarono disse che pensava di tornare a casa il giorno dopo, invece rimase quasi una settimana lontano da casa. Tornò a Milano soltanto mercoledì 20 luglio, poco dopo le 10 di mattina.

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Il processo di primo grado si era soffermato molto sulle capacità cognitive della donna, dopo che due psicologhe del carcere di San Vittore, dove era detenuta, avevano sostenuto che Pifferi avesse un quoziente intellettivo troppo basso per comprendere le conseguenze delle proprie azioni. Il pubblico ministero Francesco De Tommasi aveva contestato quelle conclusioni e la buona fede delle due psicologhe, e con metodi contestati e inusuali aveva aperto un’indagine a loro carico per falso ideologico. Entrambe le perizie erano state commissionate su richiesta della difesa di Pifferi. I suoi avvocati hanno sempre sostenuto che Pifferi abbia un ritardo cognitivo e che avrebbe dovuto essere processata per abbandono di minore e non per omicidio volontario aggravato. Per questo avevano fatto ricorso in appello.

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