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5 dicembre 2010: è strage dei ciclisti a Lamezia. “Domenico non volevo raccontarti così”

“Corri. Forse c’e’ stata una bomba sulla strada per la Marinella. Sono tutti morti. Una strage”. Mi risuonano ancora tra i ricordi quelle terribili parole al telefono che nove anni fa mi annunciarono quella che sarebbe stata ricordata come la “strage dei ciclisti”.
Era una domenica uggiosa di dicembre. Ci si apprestava a pranzare. Lo squillo del cellulare. Quel numero che, di solito, mi annunciava qualcosa di non bello. Quella voce che tante volte mi aveva avvisato di omicidi, incidenti, quel giorno era particolarmente provata. Ed io, lasciata a casa la famiglia, in auto percorro quella strada che mi porta alla statale. Tanti pensieri in testa, tante domande nell’incertezza di cosa avrei trovato li’ sul luogo di quella strage. Le telefonate con i colleghi dell’Ansa per avvisarli che qualcosa di grosso era accaduto se chi mi aveva chiamato era anche egli scosso. Minuti e mi ritrovo li’, su quella strada con quei corpi a terra, ancora non coperti. Osservo sconcertata. Quell’auto, quelle biciclette, quelle persone. Nel frattempo, e’ un brulicare di sirene, ambulanze, lenzuola bianche che coprono quei corpi, transenne. Chiedo. Telefono. Notizie frastagliate. Poi, i nomi. Quell’elenco che trascrivo quasi meccanicamente. Eppure in quei nomi c’e’ qualcosa a me familiare. Forse rimuovo cosa sia e vado avanti. Ma intorno a me sembra tutto lentamente ovattarsi. Poi l’arrivo di Antonello. Mi guarda ed io, quasi a voler scacciare il piu’ lontano possibile la verita’ gli chiedo: “Ma Domenico e Franco chi erano? Non riesco ad identificarli”. E li: “Saveria, si tratta di Mimmo e Franco. Due giorni fa eravamo a parlare insieme sotto il porticato del tribunale. Dovevamo organizzare quella serata prima di Natale…”.
Attimi e, come fotogrammi, rivedo qui volti sorridenti. Non e’ possibile. Quegli appunti su quei fogli in mano, lentamente, si scoloriscono. Quelle parole appuntate in fretta e dettate vengono cancellate da quelle lacrime che scendono giu’ senza fermarsi. Mi devo sedere. Devo riprendere fiato, mentre davanti a me rivedo ancora i loro sorrisi, il loro essere amici. Li immagino su quelle biciclette insieme a chi ora, insieme a loro, giace coperto da quel lenzuolo bianco. Penso alle loro famiglie. Alla loro partenza quella domenica mattina. Al loro vissuto gioioso su quella strada. E poi altri volti: Lucia, Stefano, Chiara. Anche con loro ci eravamo visti qualche giorno prima quando, insieme a Domenico avevamo parlato del futuro dei nostri ragazzi. Ed ora cosa faro’? Come potro’ consolarli se la prima a non accettare tutto cio’ sono io? Questo mentre intorno e’ un brulicare di auto, ambulanze, gente silenziosa. Eppure tutto mi sembra surreale. Il telefono squilla. Le notizie si accavallano.
I miei pensieri rivanno indietro di qualche giorno, forse a voler allontanare da me quella tremenda realta’: Era ora di pranzo anche quel venerdi’. Piovigginava anche quella mattina. Domenico e Francesco erano li’, sotto quel porticato dove tante volte ci eravamo incontrati: “Ciao, tutto bene? Novita’?”.
“Se mi dai qualche giorno – dice Domenico avvolto nel suo giubbotto – te ne daro’ qualcuna. Devi pazientare”. Da qui inizia un discorso fatto di scherzi, battute cui si aggiungono altre persone. Come accade spesso, ci si ritrova a parlare di mangiare: vino, morsello… Pochi minuti e gia’ ci si organizza “per la prossima settimana” perche’ Domenico, come ogni anno, per Natale va a casa dei suoceri fuori dalla Calabria. Ci si accorda, mentre la pioggia scende giu’.
“Domenica non e’ possibile perche’ abbiamo l’uscita in bici, sempre che non piova come oggi”. Ed e’ un racconto di questa passione per la bici.
“Va bene, facciamo in un giorno infrasettimanale”. Ci aggiorniamo a lunedi’”.
Saluti, abbracci e strette di mano tra una battuta ed un’altra, tra un complimento di Francesco sulla maestosita’ del gatto di mia sorella che “vedo ogni giorno passeggiare sul balcone” ed un accenno sul menu’ da scegliere per quella serata che sentiamo sempre piu’ vicina ed organizziamo nei minimi dettagli. Poi ognuno verso la propria casa.
“Saveria”, mi sento chiamare. Mi volto: e’ Domenico; sta scendendo le scale del tribunale e, guardandomi sorridendo, dice: “Io la notizia te la daro’, ma tu promettimi che metterai una bella foto mia. Va bene? La voglio bella grande. Promesso?”
“Si’, Dome’ te lo prometto. Sara’ fatto. Tu mandamene una bella che poi provvedo io”, e’ la mia risposta, mentre Franco ironizza sulla “vanita’” di Domenico. Si ride mentre la pioggia aumenta.
Ricordi che ti lacerano dentro. Occhi che cercano cio’ che non potra’ essere piu’ come prima con in sottofondo pianti ed urla di dolore.
Le lacrime continuano a scendere sul mio volto mentre racconto cio’ che accade, mentre cerco di comprendere cio’ che ancora oggi non riesco a comprendere. Rimango li’ fino a quando fa buio, fino a quando anche l’ultimo degli otto viene portato via.
“Dome’, io ora sono qui. Tra questo frastuono surreale. In questa vicenda surreale a dover raccontare di te e dei tuoi amici, morti in una uggiosa domenica di dicembre. Dome’, non e’ giusto, non era cosi’ che volevo scrivere di te. Non era cosi’ che volevo raccontarti. Ora vado da Lucia e dai tuoi cari. Dome’ sono qui a casa tua. Lucia e’ li’ davanti a me: e’ bastato guardarci negli occhi per dirci tutto ed ancora oggi, quando ci vediamo, sono i nostri occhi a parlare per noi”.
Dome’, la foto l’ho scelta. E’ bella, ma non volevo pubblicarla per questo…

Saveria Maria Gigliotti